Cari amici, come avrete visto girando tra le pagine di questo mio viaggio, non ho mai nascosto la mia particolare sensibilità per i crudi e, in generale, per i frutti di mare. Ad ogni buon conto, però, non tutti i ristoratori sono in grado di impiattarli nella maniera corretta.
Quindi, con queste poche righe, proverò a dare qualche consiglio che può tornare comodo a quanti decidano di dedicarsi anche al servizio di un buon plateau, secondo quello che può considerarsi il mio gusto personale e non certamente una “linea guida” di ciò che l’arte della cucina preveda. Pertanto, chi è del mestiere prenda questi miei appunti solamente quale punto di vista di un cliente.
Esigente, senz’altro, ma pur sempre un semplice cliente. Regola numero uno: #ghiaccio ! Il plateau, per quanto riguarda crudi (mitili, #ostriche e altri frutti di mare crudi) e bolliti/sbollentati, esige una base di ghiaccio tritato. Il ghiaccio è fondamentale. Non utilizzate macchine che tritino il ghiaccio troppo minuto, né utilizzate cubetti solo spaccati o, peggio, interi.
Vi sono ristoratori – e parecchi – che servono il crudo su piatti di ceramica senza, peraltro, alcuna base di ghiaccio. Non va bene, soprattutto d’estate. Il gusto e l’odore del pesce tende a modificarsi rapidissimamente in conseguenza della tendenza all’immediata ossidazione del prodotto, per cui il risultato sarà quello di servire pesce caldo e con un lieve odore di prodotto non fresco.
La resa, portando il frutto di mare alla bocca (e al naso) sarà quella di trovarsi di fronte ad un prodotto non fresco. Anche qualora il cliente opti per un assaggio di crudo, è preferibile non servirlo su ceramica, ma organizzare un piccolo piatto d’alluminio con ghiaccio.
Non costa nulla ed il prodotto apparirà sicuramente più fresco. Ciò valga soprattutto nei luoghi particolarmente caldi, quali i ristoranti estivi nelle zone costiere mediterranee. Ma è una regola che prescinde dalla collocazione geografica e viene generalmente applicata nei più rinomati ristoranti del mondo.
Ripeto: errore banale che squalifica il plateau in sé, nonché il ristoratore che lo serve. Dunque: ghiaccio abbondante. Come predisporre il ghiaccio? Intanto su vassoi di alluminio, che tiene la temperatura e diventa immediatamente freddo (ottimo conduttore di temperature).
Inoltre, il must sarebbe quello di foderare l’interno del piatto d’alluminio con alghe per poi riempire con ghiaccio. Le alghe sigillano il ghiaccio rallentando ancora di più lo scongelamento. Il ghiaccio posto così, sopra le alghe, deve essere pressato tramite una paletta, in modo da renderlo compattarlo.
Chi non compatta adeguatamente il ghiaccio otterrà in breve tempo un acquitrino, con tanti frutti di mare che gironzolano lì attorno. Sulla base così formata vanno serviti i frutti di mare secondo un ordine che sia logico, per non creare disordine – mentale e di metodo – in chi affronta la mangiata.
Preferibile disporre le ostriche in gruppi di varietà. I crostacei (aragosta, astice e granchioni) vanno disposti in apice, oltre che per resa estetica, anche per permanenza su ghiaccio fino al termine del plateau. Ribadisco: evitate la ceramica ed evitate di servire il pesce su plateau senza ghiaccio.
Alcuni tipi di prodotti (ad esempio i carpacci) è preferibile che non coesistano con il ghiaccio (soprattutto laddove conditi). Posono essere posti su un altro piatto di alluminio, separato dal piatto con il ghiaggio (e con i crudi) da un’alzata di metallo.
Qui mi rivolgo ai consumatori: mi sono abituato, nel corso degli anni, a procedere per gradi: prima mi concentro sulla mangiata dei frutti di mare che sono stati posti sul ghiaccio, rigorosamente sul piatto collocato più in basso, poi rimuovo l’alzata di acciaio e appoggio il piatto di alluminio con i carpacci e gli altri frutti di mare sul ghiaccio del plateau appena finito.
In tal modo il piatto con carpacci ed altri frutti di mare non serviti su ghiaccio si raffredda in un tempo rapidissimo! Sono strategie che si acquisiscono man mano, a distanza di tempo! Ma tutto il plateau va servito su ghiaccio? Un altro consiglio: sul ghiaccio possono essere serviti sia i crudi bivalva (mitili, ostriche, etc.), sia i crostacei sbollentati o bolliti ( #astice, #aragosta, #granchione, #scampi, #mazzancolle etc.).
- Non ponete sul ghiaccio i frutti di mare cucinati: i gratinati, ad esempio.
- Portare un gratinato sul ghiaccio equivale ad ucciderlo: va mangiato caldo.
- Coloro i quali portano i bocconi sul ghiaccio, a mio modo di vedere, sbagliano.
- E’ vero che questi non possano essere parificati del tutto ai bulots che, di contro, non fanno particolare fatica ad uscire dal guscio, se adeguatamente “cavati”.
La coda dei bocconi, invece, ovvero la parte più buona, se il mollusco viene servito sul ghiaccio non uscirà. Il che è veramente un peccato. Idem per i percebes: vanno serviti caldi, non freddi! In molti ristoranti dove vengono serviti i percebes, questi vengono separati dal resto del plateau, serviti in un piatto fondo con acqua calda e coperti con un tovagliolo di stoffa per evitare che si raffreddino.
E’ il modo migliore per mangiarli: si aprono meglio e mantengono un gusto molto più deciso. Non trascurate i #preliminari ! Prima di servire il plateau, sinceratevi che il cliente abbia già ricevuto ogni strumento utile all’apertura dei frutti di mare che servite. Non basta certamente la sola pinza o la pinza e il cavino.
Occorre lo spillo (per bulots e/o bocconi e/o altre lumachine di mare), il rompi chele, la paletta collegata al cavino, la forchetta da ostrica e almeno due forchette di altre misure. Due coltelli aiuteranno (lama fine e lama grossa). Non fate i provinciali: non costringete il cliente a dover richiedere man mano questo o quello strumento, con attese alquanto imbarazzanti.
I ristoranti parigini nulla lasciano al caso: il plateau viene servito solo al seguito del corredo necessario a mangiarlo! Vi è chi dispone il plateau su unico piano e chi lo adagia su più piani. Per me, per quanto già scritto, è indifferente l’uno o l’altro servizio. L’importante è rinfrescare i piatti dei piani superiori sul ghiaccio di quelli inferiori che via via liberate.
Nelle foto, vedete alcuni esempi di plateau sardi, francesi e spagnoli. Tutti degnamente serviti, ma con piccoli errori rimediabili. Vi parlerò, man mano, dei singoli ristoranti nei quali li ho mangiati.Se avete precisazioni o richieste, mi raccomando: scrivetemi! #food #foodporn #plateau #crudi #mare #seafruits #seafood
Come servire il crudo?
Come servire il prosciutto crudo – Il modo migliore per offrire il prosciutto crudo e gli altri salumi è quello di tagliarli a mano con l’ausilio di un guéridon, Le fette risulteranno molto più profumate e gustose rispetto a quelle affettate a macchina, senza contare l’indiscutibile effetto scenografico assicurato da questo tipo di servizio.
- Se invece il prosciutto crudo che andremo ad offrire ai nostri ospiti è già stato affettato, fate attenzione a conservarlo in maniera adeguata in modo da evitare che si ossidi a contatto con l’aria.
- Basterà coprirlo con una pellicola per alimenti (non a base di PVC) e, se occorre, prima di portarlo in sala togliere la prima fetta più scura.
Se non è possibile gestire il pezzo intero di prosciutto, allora ci sono le alternative classiche. Si può servirlo nello stile più semplice (e sicuramente meno raffinato), già affettato e posto nel piatto di ogni commensale direttamente in cucina; oppure la soluzione più informale, detta ” alla francese “, dove ognuno si serve da solo da un piatto di portata posto al centro del tavolo.
Come mangiare il pesce crudo in sicurezza?
Pesce crudo, quali sono i rischi? – I pericoli in agguato per chi mangia pesce crudo sono molti. Innanzitutto, è bene sapere che il pesce non può essere consumato crudo senza subire prima dei processi termici, sia a casa sia al ristorante. Deve essere cotto per almeno un minuto a 60 gradi oppure deve essere abbattuto cioè viene congelato a una temperatura non superiore a – 20 gradi per almeno 24 ore nei ristoranti (grazie ad appositi strumenti) e per almeno 96 ore nel freezer di casa,
Le procedure di abbattimento sono efficaci per distruggere ogni presenza di parassiti, in particolare di anisakidosi, che sono normalmente presenti in numerose specie marine e che possono essere pericolosi per l’uomo se vengono ingeriti sottoforma di larve; essi provocano infatti sintomi come nausea, vomito, diarrea perché attaccano le mucose gastrointestinali o possono causare una reazione allergica.
Tra gli altri tipi di batteri e tossine che si possono trovare nel pesce crudo c’è inoltre la Listeria, l’Escherichia coli, la Salmonella, il Virus dell’Epatite A, tutti più o meno nocivi per la salute.
Cosa si prende dal pesce crudo?
Video Anisakis Laboratorio Ispezione degli alimenti IZSM Portici Quali sono i rischi associati al consumo di pesce crudo? Mangiare pesce crudo comporta sicuramente un alto rischio malattie alimentari causate da batteri patogeni, oppure da parassiti. Il rischio maggiore per chi consuma pesce crudo si chiama Anisakidosi.
- Cos’è l’Anisakidiosi? L’anisakidosi è una parassitosi che può colpire l’uomo, causata da vermi tondi (nematodi), appartenenti alla famiglia degli Anisakidae, composta da quattro generi: Anisakis, Pseudoteranova, Contracaecum e Hysterothylacium.
- Di questi, i primi tre generi sono responsabili di zoonosi mentre il genere Hysterothylacium non è patogeno, data la termolabilità del parassita (muore alla temperatura di 30°C).
Il genere Anisakis, il più diffuso, è il principale responsabile di parassitosi, in quanto è in grado di sopravvivere a trattamenti di affumicatura a freddo, a trattamenti di marinatura con basso tenore di sale ed alle temperature di refrigerazione. Viene ucciso con temperature superiori a 60°C per 10 minuti e dal congelamento (almeno 24 ore a – 20°C).
- Nei pesci le larve, che misurano circa 4 mm, si localizzano sulle sierose di fegato, ovaio, stomaco e intestino, dove tendono a incistarsi e assumere una caratteristica forma a spirale.
- Quali sono i prodotti ittici maggiormente a rischio per l’Anisakidosi? I prodotti ittici dei mari italiani più frequentemente parassitati sono: sardine, aringhe, acciughe, sgombri, gadidi, sparidi, lophidi, pesci S.
Pietro, pesci sciabola (quasi sempre infestati), totani, calamari. Il rischio è legato al consumo dei prodotti ittici crudi, marinati o affumicati a freddo, sushi e sashimi, ultime tendenze provenienti dall’Oriente, semiconserve domestiche a base di pesce azzurro. Il parassita adulto vive nello stomaco di vari cetacei (balene, delfini). Questi eliminano attraverso le feci le uova da cui si sviluppano le larve, dette di secondo stadio, che infestano piccoli crostacei marini, divenendo larve di terzo stadio. Quando questi crostacei vengono ingeriti dall’ospite definitivo, la larva diventa di quarto stadio e il ciclo ricomincia.
Pesci e cefalopodi che si cibano di questi crostacei possono fungere da ospiti intermedi, dove la larva rimane di terzo stadio e tende a migrare in cavità celomatica. Se il pesce parassitato viene ingerito dall’ospite definitivo, il ciclo si chiude. In che modo l’uomo può contrarre l’Anisakidosi? L’uomo può comportarsi da ospite accidentale contraendo l’infezione cibandosi degli ospiti intermedi naturali (pesci e cefalopodi: come acciughe, sardine, sgombri, totani e calamari).
Sono a rischio le popolazioni che maggiormente si cibano di pesce crudo (Paesi Scandinavi, Giappone). Come si manifesta l’infezione da Anisakis? Quali sono i principali sintomi? Nella migliore delle ipotesi, una volta ingerita, la larva muore o non dà sintomi.
In alcuni casi, soprattutto quando vengono ingerite più larve, in seguito all’assunzione di pesce infetto crudo, non completamente cotto o in salamoia, le larve possono impiantarsi sulla parete dell’apparato gastrointestinale, dallo stomaco fino al colon. Per difendersi dai succhi gastrici, attaccano le mucose con grande capacità perforante, determinando una parassitosi acuta o cronica.
La parassitosi acuta da Anisakis insorge già dopo poche ore dall’ingestione di pesce crudo e si manifesta con intenso dolore addominale, nausea, vomito ed occasionalmente febbre. Le forme croniche sono diverse, possono mimare svariate malattie infiammatorie e ulcerose del tratto intestinale oppure coinvolgere altri organi come fegato, milza, pancreas, vasi ematici e miocardio.
- E l’allergia ad Anisakis? Da alcuni anni, Anisakis è stato riconosciuto anche come possibile causa di allergia.
- I soggetti sensibili possono avere reazioni allergiche non solo ingerendo il pesce infetto ma anche manipolandolo o respirando allergeni diffusi nell’aria.
- Si tratta di un rischio prevalentemente legato alla lavorazione del pesce (malattia professionale che riguarda i lavoratori nel settore della trasformazione dei prodotti ittici).
Sono state osservate in questi casi reazioni che vanno dall’orticaria, all’angioedema, alla rinite o congiuntivite, all’asma, allo shock anafilattico. L’allergia all’Anisakis compare immediatamente dopo esserne venuti a contatto, o dopo aver consumato il pesce contaminato a causa della sensibilizzazione alle proteine antigeniche termoresistenti del parassita.
Su cosa si basa la diagnosi di Anisakidosi? La diagnosi di sospetto di Anisakidosi si basa sull’osservazione dei sintomi e sul riscontro dell’ingestione di prodotti ittici a rischio. La diagnosi di certezza è molto difficoltosa e può essere emessa solo previa identificazione del parassita nei tessuti prelevati durante biopsie o endoscopie.
Non esistono, infatti, test sierologici affidabili. Per quanto concerne invece le forme allergiche si possono utilizzare alcune prove di laboratorio e lo skin test che consente di vedere la reazione del paziente dopo contatto con gli antigeni del parassita.
Qual è la terapia per l’infezione da Anisakis? La cura dell’anisakidosi richiede molto spesso l’intervento chirurgico, per asportare la parte dello stomaco o dell’intestino invasa dai parassiti. Una volta contratta la malattia, infatti, la rimozione endoscopica della larva sembra essere la terapia di scelta, considerando che i comuni antielmintici non sono stati ritenuti fino ad ora efficaci.
Come prevenire l’infezione da Anisakis? Questi nematodi migrano dalle viscere del pesce alle sue carni se, dopo la cattura non viene prontamente eviscerato. Pertanto è importante osservare attentamente i prodotti della pesca ed eviscerarli il prima possibile dopo la cattura per evitare la migrazione delle larve nella carne.
- Risulta altresì fondamentale l’impiego di adeguati processi di preparazione del cibo.
- E’ noto infatti che le forme gastroenteriche della malattia sono riconducibili all’assunzione di prodotti ittici contenenti larve vive.
- Per questa ragione durante la lavorazione dell’alimento si dovrebbero utilizzare tutti gli accorgimenti necessari ad assicurare la morte delle stesse.
Quali trattamenti tecnologici possono eliminare o ridurre il rischio di Anisakidosi? Le larve dei parassiti appartenenti alla famiglia Anisakidae sono devitalizzate se il prodotto ittico viene congelato (-20°C per 24 ore) o cotto (almeno 60°C a cuore per 10 minuti).
- Una circolare del ministero di sanità del 1992, ancora in vigore, obbliga chi somministra pesce crudo o in salamoia ad utilizzare pesce congelato (il limone e l’aceto non hanno alcun effetto sul parassita) o a sottoporre a congelamento preventivo il pesce fresco da somministrare crudo.
- La salagione secca, se il sale è in grado di raggiungere tutte le parti del muscolo ed è impiegato alle giuste concentrazioni, devitalizza il parassita.
L’affumicatura e la marinatura non sono in grado di uccidere con sicurezza le larve di anisakidi. La marinatura riesce ad uccidere le larve dopo circa 4 settimane nei casi in cui si proceda utilizzando il 6% di sale ed il 4% di acido acetico. Nel caso dell’ affumicatura, invece, l’87% delle larve di Anisakis presenti nel cibo resistono se la temperatura impiegata è di 28°C, mentre la devitalizzazione è completa se il procedimento prevede l’uso di una temperatura di 53 – 60°C.
Quali comportamenti si possono adottare per ridurre o evitare il rischio di Anisakiasi? o Evitare il consumo di prodotti ittici crudi; o Acquistare già eviscerati, i pesci più a rischio di infestazione o in alternativa il pescato deve venire eviscerato al più presto dal momento della cattura (con distruzione dei visceri) per allontanare i parassiti presenti, prima del loro passaggio nella muscolatura; o Cuocere in modo completo e corretto i prodotti ittici; o Se si desidera preparare piatti a base di pesce crudo o poco cotto effettuare un congelamento preventivo.
Riferimenti normativi Legge 283/1962, art.5, punto D Ordinanza Ministeriale 12 maggio 1992 Regolamento CE/853/04 Sezione VIII, Capitolo III, Capitolo V Regolamento CE/2074/05, Allegato II, Sezione I, Capitolo I, II Regolamento CE/1020/08, Allegato II Approfondimenti-http://www.orsacampania.it/wp-content/uploads/2009/12/OpusoloAnisakis.pdf Dr.ssa Eloise Peirce ORSA
Come presentare il crudo a tavola?
Come servirli Possiamo portare in tavola i fagottini di prosciutto crudo in un bel piatto da portata, su un letto di insalata verde o rucola arricchite da scaglie di grana. Un altro modo carino e appetitoso per servirli è adagiarli su fette di pane tostato condite con un filo d’olio.
Quanto tempo può stare il crudo in frigo?
PROSCIUTTO CRUDO AFFETTATO IN BUSTA – Il limite massimo di conservazione è di venti giorni ma è sempre meglio consumarlo rapidamente per evitare che acquisti un sapore poco appetitoso con il passare del tempo. Conservatelo nella parte più alta del frigorifero,
Quante volte a settimana si può mangiare pesce crudo?
Il pesce è un alimento ottimo per la nostra salute: è una valida fonte proteica, le sue proteine contengono tutti gli aminoacidi nelle giuste proporzioni; i suoi grassi sono tra quelli i più salutari, e forniscono gli omega 3; negli ultimi anni il consumo di pesce crudo in italia è aumentato enormemente ha un apporto calorico decisamente limitato in assenza di condimenti aggiuntivi e rappresenta una delle poche fonti alimentari naturali di vitamina D.
- Proprio per le sue proprietà ne è raccomandato il consumo di almeno 2 porzioni a settimana, che possono essere tranquillamente aumentate per i grandi vantaggi dati dal loro valore nutrizionale.
- Negli ultimi anni in Italia è aumentato il consumo di pesce crudo e, da una parte, ciò è dovuto all’aumentata consapevolezza delle proprietà benefiche del pesce e al suo scarso apporto calorico (eccetto per alcune specie grasse ), dall’altra alla globalizzazione culinaria e alla diffusione di nuove mode alimentari (es.
sushi, sashimi) che ne hanno rafforzato il consumo.
Come si chiama la malattia che si prende mangiando il pesce crudo?
Anisakidosi o anisakiasi: cos’è, disturbi e cura Dettagli Pubblicato: 15 Maggio 2019 – Ultimo aggiornamento: 03 Gennaio 2022 L’anisakidosi o anisakiasi è un’ parassitaria del tratto gastrointestinale causata dall’ingestione di pesce crudo o non sufficientemente cotto contenente le larve di parassiti (nematodi) appartenenti alla famiglia Anisakidae (che include i generi Anisakis, Pseudoterranova e Contracaecum ).
I parassiti si mantengono nell’ambiente marino attraverso un ciclo che coinvolge i mammiferi marini (balene, foche, delfini) i quali, nel ruolo di ospiti definitivi, ospitano i parassiti adulti nel loro intestino e nello stomaco. Attraverso le feci, i mammiferi marini rilasciano le uova, che dopo la schiusa vengono ingerite dai primi ospiti intermedi, piccoli crostacei che formano il cosiddetto krill, dove si sviluppa la larva di I stadio (L1).
Il krill a sua volta viene mangiato da un secondo ospite intermedio, che è un pesce o un mollusco, nel quale le larve passano al II e III stadio larvale (L2 e L3). Quando un pesce o mollusco infetto viene mangiato da un mammifero marino, la larva, nello stomaco e nell’intestino diventa verme adulto e chiude il ciclo di riproduzione.
- Nei pesci di interesse commerciale sono quindi presenti le larve del parassita.
- L’uomo si infetta mangiando pesci o molluschi crudi o poco cotti contenenti le larve in stadio 3 (L3), che nel tratto gastrointestinale causa gravi disturbi e/o,
- Le larve che infettano l’uomo non si sviluppano diventando parassiti adulti, ma sono destinate a morire, quindi l’uomo non elimina uova alimentando il ciclo del parassita.
Inoltre, non è possibile una trasmissione da uomo a uomo, in quanto l’infezione avviene solo attraverso l’ingestione di larve vitali negli ospiti intermedi (pesci o molluschi). Le larve di anisakidi misurano da 1 ai 3 centimetri (cm) e sono visibili a occhio nudo nella cavità addominale, nell’intestino, sul fegato, sulle gonadi e nei muscoli dei pesci.
Hanno una colorazione che varia dal bianco al rosato, sono sottili e tendono a essere arrotolate a spirale su se stesse. Il rischio di contrarre l’infezione è dato dall’abitudine di consumare pesce crudo o poco cotto. L’infezione infatti è molto frequente nei paesi dove il pesce viene mangiato crudo, leggermente sottaceto o sotto : Scandinavia (fegato di merluzzo), Giappone (consumo di sushi e sashimi), Olanda (aringhe fermentate), Bacino del Mediterraneo (alici crude o marinate) e costa Pacifica del Sud America (insalata di mare nota come ceviche ).
Nel Mediterraneo il parassita è estremamente diffuso, e vi sono specie di pesci, quali lo sgombro e il pesce sciabola, che raggiungono il 70-100% di infestazione nel pescato. Una volta ingerite, le larve di anisakidi spesso muoiono e non provocano disturbi.
In alcuni casi, tuttavia, le larve vive possono invadere la mucosa dello stomaco (gastrica) o dell’intestino causando la anisakidosi gastrointestinale, La forma acuta dell’infezione è generalmente quella gastrica, caratterizzata da nausea, e dolori alla “bocca dello stomaco” (epigastrici) che possono comparire da 4 a 6 ore dopo aver mangiato pesce infestato.
Nella forma intestinale, segni e disturbi (sintomi) possono manifestarsi anche 7 giorni dopo l’infezione con, aumento dei globuli bianchi (leucocitosi), vomito,, dolori addominali e nausea. Talvolta, le larve possono perforare la mucosa gastrointestinale, causando emorragie.
- In rari casi le larve si localizzano al di fuori dell’apparato gastrointestinale (nel mesentere, un ripiegamento della membrana che riveste la cavità addominale, nella cavità addominale etc.).
- Possono anche provocare manifestazioni allergiche di vario grado che vanno dall’orticaria alla fino, nei casi più gravi, allo,
Nelle persone che lavorano nella catena di conservazione del pesce è stata riscontrata una forma di legata alla loro attività che può provocare, congiuntivite e da contatto.
- La anisakidosi si contrae consumando pesce crudo o sottoposto a procedimenti non idonei ad uccidere le larve, quali la salagione, l’affumicatura o la marinatura.
- Una volta che le larve raggiungono il sistema digerente, si attaccano alla mucosa gastrointestinale e, utilizzando il loro particolare apparato boccale rilasciano enzimi che sciolgono le (proteolitici) perforando così le mucose in profondità e danneggiando l’area circostante al punto nel quale sono attaccate.
- Talvolta, possono persino oltrepassare le barriere gastro-intestinali e localizzarsi in altre parti dell’addome, come il fegato, la milza, il pancreas etc.
Nell’uomo, che è un’ospite accidentale, questi parassiti non possono svilupparsi fino allo stadio adulto. Infatti, nel corpo umano gli anisakidi rimangono, in genere, per non più di due settimane, finendo inglobate in un piccolo aggregato di cellule infiammatorie chiamato granuloma.
- Poiché i disturbi (segni e sintomi) causati dall’infezione da anisakis sono molto vari, questa malattia spesso non viene riconosciuta immediatamente e viene confusa con altre malattie che provocano disturbi simili, come l’ulcera, l’ostruzione intestinale, il, etc.
- Per accertare l’infezione il medico curante dovrebbe indagare sull’alimentazione della persona che accusa tali disturbi in modo da poterli collegare ad un’eventuale ingestione di pesce marino crudo o poco cotto.
- Tuttavia, l’accertamento (diagnosi) definitivo di anisakidosi si ottiene mediante l’esame endoscopico (, duodenocolonscopia, ecc), che potrà essere anche curativo se si ha la possibilità di estrarre tutte le larve presenti nell’ospite.
Per accertare l’allergia da anisakidi è opportuno eseguire degli esami, come il e l’ImmunoCAP, in grado di rivelare la presenza di immunoglobuline di classe E (IgE) specifiche per gli anisakidi in assenza di IgE specifiche verso il pesce consumato. Questi esami sono molto sensibili ma possono produrre risultati positivi anche in caso di esposizione ad allergeni di altri nematodi, molluschi o insetti a causa della somiglianza esistente tra questi e gli allergeni presenti negli anisakidi (falsi positivi).
- Per questo motivo è conveniente rivolgersi a laboratori specializzati che hanno a disposizione test più specifici.
- Senza dubbio la cura migliore è la rimozione endoscopica dei parassiti dal tratto gastrointestinale, sempre che sia possibile (nelle forme gastriche).
- Tuttavia, in casi gravi, per esempio nell’ostruzione intestinale, nell’ o nella peritonite, è necessario un intervento chirurgico.
Sono stati descritti casi in cui il trattamento con farmaci antiparassitari quali l’ albendazolo ha portato al successo terapeutico. Il congelamento e la cottura di pesci e molluschi sono i due metodi più efficaci per evitare una infezione da anisakidi.
- togliere le viscere dal pesce prima possibile in modo da diminuire il rischio del passaggio delle larve dalla cavità viscerale ai muscoli (parti che si mangiano)
- assicurarsi che il pesce nella sua totalità, anche le parti più grosse, sia congelato a meno 18 gradi (-18°) per almeno 96 ore (solo i congelatori industriali o quelli domestici a tre o più stelle possono raggiungere questa temperatura). Solo dopo questo trattamento si potrà consumare il pesce crudo (sushi, sashimi, carpacci, pesce affumicato a freddo, pesce marinato) o poco cotto
- cuocere il pesce, tenendo conto che, per avere la certezza di aver ucciso le larve, l’interno del pesce, anche le parti più grosse, deve raggiungere una temperatura superiore ai 60°C per almeno 10 minuti
La normativa dell’Unione Europea stabilisce l’obbligo per chi vende o per i ristoranti che servono pesce crudo o in salamoia (, limone, olio e aceto non hanno alcun effetto sull’anisakis) di effettuare la procedura d’abbattimento preventivo del pesce destinato al consumo a crudo.
- L’abbattimento si effettua tramite un’apparecchiatura (tipo freezer) che consente di portare l’alimento a temperature tra i -20 e – 40°C molto velocemente per un tempo variabile dalle poche ore fino a più giorni.
- Solo con questa procedura si distruggono le larve.
- Esiste una normativa europea del 2004 che obbliga l’abbattimento a tutti gli esercizi che vendono o servono pesce crudo.
Prossimo aggiornamento: 03 Gennaio 2024 : Anisakidosi o anisakiasi: cos’è, disturbi e cura
Come sistemare gli antipasti nel piatto?
Come tagliare i salumi e come si portano in tavola – La mortadella e il prosciutto cotto possono essere tagliati sia a fette sottili che a cubetti. Anche il prosciutto crudo, la pancetta e il guanciale vanno tagliati a fette molto sottili.
- Invece, i salami e le si tagliano a fette più spesse, di forma circolare.
- Dunque, come si compone un piatto di salumi?
- Innanzitutto, meglio evitare di utilizzare piatti usa e getta e di preparare gli affettati in anticipo perché sono molto più buoni appena tagliati. Ecco come disporre i salumi nel piatto:
- Disponete i salumi di diverso tipo uno a fianco all’altro.
- Partite da quelli più grossi per arrivare a quelli più sottili e dal gusto più forte e piccante.
- Meglio partire dai salumi meno stagionati a quelli più stagionati. I più dolci dovranno precedere i più salati e quelli neutri vanno prima di quelli speziati.
- Il più magro precede il più grasso, quindi la pancetta, ad esempio, va posizionata dopo la bresaola o la coppa.
- L’ordine dovrebbe essere questo: salame, bresaola, prosciutto cotto, prosciutto crudo, mortadella, pancetta.
Il modo più semplice di disporli sul piatto è quello di distribuire le fette di salame, prosciutto ecc., arrotolate su se stesse, iniziando dal centro e formando dei cerchi alternando i vari tipi. Un altro modo è quello di posizionare delle olive o del formaggio tagliato a dadini al centro e disporre le fette dello stesso salume a raggio.
Come presentare gli affettati per antipasto?
Fette arrotolate su vassoio circolare Il modo più semplice per presentare dei salumi misti è quello di sistemarli su un vassoio rotondo, distribuendo le fette di salame, prosciutto, bresaola o pancetta, arrotolate su se stesse, partendo dal centro e formando dei cerchi alternando i vari tipi in modo armonioso.
Dove tenere il prosciutto crudo?
COME CONSERVARE IL PROSCIUTTO CRUDO INTERO – Nel caso tu abbia acquistato un prosciutto crudo intero con osso, lo puoi conservare appeso fino ad una durata di 12 mesi. Ricorda però che per una conservazione ottimale occorre rispettare determinate condizioni di umidità e temperatura.
Meglio conservarlo in un luogo fresco e asciutto come, ad esempio, una cantina. La temperatura non deve superare i 18 gradi. C’è un motivo infatti per cui i migliori prosciutti DOP possono essere prodotti sono in alcune località. Si tratta infatti di territori che presentano delle caratteristiche climatiche uniche e non riproducibili altrove cha vanno ad influire sulla conservazione della carne.
Il prosciutto crudo intero, una volta tagliato, dovrà essere conservato in frigorifero ad una temperatura che non superi i 7 gradi. Inoltre, sarà necessario ricoprire la parte tagliata con la carta trasparente per evitare che stia a contatto con l’aria.
Un’altra soluzione è quella di metterlo sottovuoto, se si dispone di un macchinario per il sottovuoto. Consigliamo in ogni caso di acquistare un prosciutto crudo intero solo se si è dotati di affettatrice o di un buon set di coltelli e, naturalmente, di un buon appetito! Un prosciutto crudo intero, se conservato correttamente, una volta tagliato può durare fino ad un mese.
Il prosciutto crudo disossato va conservato fin da subito in frigorifero, sigillato e ad una temperatura non superiore ai 7 gradi. Una volta tagliato occorre anche in questo caso ricoprire la parte esposta all’aria con della carta trasparente e consumare il prodotto entro un mese.
Come coprire il prosciutto tagliato a mano?
Come coprire un prosciutto Il prosciutto è uno dei prodotti di punta della gastronomia. iniziato – Acquistare un prosciutto intero è qualcosa che non si fa tutti i giorni e, per sfruttare al meglio ogni fetta Nei locali di Enrique Tomás, quando qualcuno dice la parola., è importante sapere come coprire un prosciutto in modo che non si secchi, perché solo così potremo godere degli aromi e delle sfumature di ogni fetta. Si scioglieranno in bocca! La prima cosa da tenere a mente è che una volta che avete il vostro prosciutto posto nel supporto del prosciutto e avete rimosso la cotenna, buttarla via! Probabilmente avete sentito la frase “coprire il prosciutto con la propria cotenna” prima.
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Dove mettere il prosciutto crudo?
COME CONSERVARE IL PROSCIUTTO CRUDO INTERO – Nel caso tu abbia acquistato un prosciutto crudo intero con osso, lo puoi conservare appeso fino ad una durata di 12 mesi. Ricorda però che per una conservazione ottimale occorre rispettare determinate condizioni di umidità e temperatura.
Meglio conservarlo in un luogo fresco e asciutto come, ad esempio, una cantina. La temperatura non deve superare i 18 gradi. C’è un motivo infatti per cui i migliori prosciutti DOP possono essere prodotti sono in alcune località. Si tratta infatti di territori che presentano delle caratteristiche climatiche uniche e non riproducibili altrove cha vanno ad influire sulla conservazione della carne.
Il prosciutto crudo intero, una volta tagliato, dovrà essere conservato in frigorifero ad una temperatura che non superi i 7 gradi. Inoltre, sarà necessario ricoprire la parte tagliata con la carta trasparente per evitare che stia a contatto con l’aria.
Un’altra soluzione è quella di metterlo sottovuoto, se si dispone di un macchinario per il sottovuoto. Consigliamo in ogni caso di acquistare un prosciutto crudo intero solo se si è dotati di affettatrice o di un buon set di coltelli e, naturalmente, di un buon appetito! Un prosciutto crudo intero, se conservato correttamente, una volta tagliato può durare fino ad un mese.
Il prosciutto crudo disossato va conservato fin da subito in frigorifero, sigillato e ad una temperatura non superiore ai 7 gradi. Una volta tagliato occorre anche in questo caso ricoprire la parte esposta all’aria con della carta trasparente e consumare il prodotto entro un mese.
Quanti etti di crudo a persona?
Ruolo del prosciutto crudo nella dieta – Il è l’ alimento ideale da includere in un regime dietetico ipocalorico, in quanto ricco di sali minerali e proteine, ma povero di carboidrati e grassi. Inoltre i suoi valori nutrizionali lo rendono un valido sostituto della carne, facendolo in questo modo diventare il cibo perfetto per tutti i soggetti che soffrono di gastrite.
- L’apporto calorico di questo alimento corrisponde a sole 150 calorie per ogni 100 grammi di prodotto, a patto che venga privato di tutto il grasso visibile, senza il quale diventa ancor più digeribile.
- Bisogna anche tenere a mente che aiuta a velocizzare il metabolismo e fa bene alla salute, poiché non contiene alcun conservante o additivo.
- Per quanto riguarda la quantità ideale da assumere, deve essere moderata; si raccomanda dunque di portare in tavola 60 grammi di prosciutto crudo (sono circa sei-sette fette private del grasso) per un massimo di due volte alla settimana.
Con queste dosi si avrà la certezza sia di soddisfare appieno il palato, sia di non eccedere con l’apporto di sale. Quest’ultimo favorisce infatti non solo la formazione di ritenzione idrica e cellulite, ma predispone a un maggior rischio di contrarre patologie di natura cardiovascolare e renale, tumori e osteoporosi.
Cosa vuol dire mettere l’olio a crudo?
Perché si dice olio a crudo e non olio crudo? – Consulenza Linguistica Diversi lettori ci chiedono perché, nel linguaggio della gastronomia, si usa la locuzione a crudo in riferimento all’olio in luogo dell’aggettivo crudo, “A cottura ultimata, aggiungete un filo d’olio a crudo “.
- C àpita spesso di leggere nei ricettari, o di sentire nei programmi televisivi di ambito gastronomico, una frase di questo tipo al termine di una ricetta di cucina, come utile consiglio per completare il piatto e renderlo più saporito.
- L’aggiunta dell’ olio di oliva a crudo, preferibilmente extravergine (oggi di frequente abbreviato, sia nel parlato che nello scritto, con la sigla EVO), chiude infatti, spesso, la preparazione di molte pietanze, quasi come un “tocco finale” irrinunciabile per condire primi piatti, zuppe e contorni di vario tipo.
E il suo uso a crudo, piuttosto che cotto, oltre che rendere l’olio più sano e meno calorico, consentirebbe, secondo gli intenditori, di conservarne inalterate le proprietà antiossidanti e di apprezzarne al meglio il suo caratteristico gusto amarognolo.
La locuzione avverbiale a crudo sembra in effetti essersi cristallizzata nella lingua della cucina, con particolare riferimento all’ olio, per sottintendere l’azione del “condire a crudo”, ossia aggiungere, a fornelli spenti, un condimento su una pietanza cotta (es. una zuppa, una pasta, un bollito, una tagliata), o cruda (es.
un’insalata, una bruschetta, un’emulsione). Già nei primi anni del Novecento il noto cuoco romano Adolfo Giaquinto, nel suo ricettario Il mio libro: cucina di famiglia e pasticceria (Grottaferrata, Scuola Tip. Italo-Orientale “S. Nilo”, XI edizione, 1931, p.17), suggeriva di mettere l’ olio a crudo nella ricetta del Brodetto di pesce per renderlo più gustoso: Sia che l’olio messo a crudo col pesce dia più buon gusto, sia che il pesce dell’Adriatico sarà più gustoso per natura, il fatto è che questo brodetto nella sua semplicità riesce squisitissimo.
Per dare un esempio più vicino ai nostri giorni, nel libro La cucina di Sonia Peronaci del 2020 (Milano, Cairo, p.77) si conclude la ricetta della “Pasta fagioli e cozze” con “il prezzemolo tritato e un filo di olio a crudo “, Oltre all’olio, si possono aggiungere a una pietanza, sempre fuori dalla fiamma di cottura, anche altri condimenti, ad esempio il pesto, come consiglia di fare Carlo Cracco nelle pagine dedicate alla cucina della Liguria del suo ricettario A qualcuno piace Cracco.
La cucina regionale come piace a me (Milano, Rizzoli Vintage, 2013; si cita dall’ed. Kindle): “la pasta al pesto non andrebbe mai saltata (anche se c’è chi lo fa), perché si tratta di un condimento che è meglio usare a crudo ” (si noti la concomitanza di usare ).
- Ma i manuali di cucina ci offrono, oggi e nel passato, impieghi ancora più ampi dell’espressione a crudo, riferibili alla sfera delle pratiche e tecniche di preparazione che si seguono in cucina.
- Il sintagma può ricorrere in particolare quando si devono preparare alcuni cibi prima di sottoporli a cottura, per esempio le, che è preferibile aprire “al fuoco” anziché “a crudo” (Dr.
Nautilus, Come si cucina il pesce. Saggio di antologia gastronomica marinara, Milano, Società per Edizioni Moderne, 1935, p.209), o in dipendenza di alcuni verbi tipici nella lingua ‘speciale’ della gastronomia: da passare, che significa in cucina ‘far rosolare brevemente’ o ‘immergere brevemente’ (), in un testo gastronomico molto importante della fine del sec.
XVIII: Se volete passare l’erbe a crudo mettete un poco d’olio, o butirro in una cazzarola, fatelo scaldare con una cipolletta con due garofani, quindi stemperateci fuori del fuoco due alici passate al setaccio, e metteteci l’erbe ben tagliate, lavate, asciugate, ed in una discreta quantità (Francesco Leonardi, Apicio moderno, Roma, s.t., vol.
V, 1790, p.17); a marinare, cioè ‘tenere immersa una vivanda, spec. pesce o carne, in una salsa a base di aceto, vino’ (GRADIT): Prendete un bel pezzo di storione, ed in mancanza una porcelletta, cioè a dire uno storioncino; fatelo marinare a crudo per otto o dieci ore (Vitaliano Bossi, L’imperatore dei cuochi, Roma, Perini, 1894, p.24); a friggere : Baccalà dorato o alla pastella.
Si prepara in più modi: cioè si può friggere a crudo o dopo prolessato (Adolfo Giaquinto, Il mio libro cit., p.145); a sfilettare ‘separare tenendole intere le parti carnose del pesce dalla lisca centrale e da quelle laterali’ (GRADIT): Sfilettate a crudo il pesce Sanpietro o, meglio, fatevelo sfilettare dal venditore (Dr.
Nautilus, Come si cucina il pesce cit., p.209); a tagliare : A crudo si taglia a pezzi o s’infarina soltanto e si bagna coll’acqua, o s’infarina e si passa all’uovo, oppure s’intinge in una pastella ben liquida» (Adolfo Giaquinto, Il mio libro cit., p.145); Lezione n.43 ” Tagliare la carne a crudo ” (Carlo Cracco, Se vuoi fare il figo usa lo scalogno, Rizzoli Vintage, 2012; si cita dall’ed.
Indle; cfr. sopra usare ). Oltre che a crudo possiamo inoltre trovare in alcuni ricettari ottocenteschi la variante (con articolo) al crudo : così, per esempio, nel Manuale del cuoco e del pasticcere di Vincenzo Agnoletti (Pesaro, Nobili, 1834) nel titolo della ricetta della Creme fovettées al crudo (tomo III, p.109), o in quella dei Marignani in diversi modi, laddove si consiglia di condire i marignani (cioè le melanzane ), dopo averli fritti, con una salsa verde da fare cotta anziché “con l’aceto al crudo ” (tomo II, p.199).
Al contrario, quando si voleva indicare la preparazione di un alimento dopo averlo sottoposto all’azione del fuoco si usava in passato l’espressione a/al cotto, per la quale ci viene in aiuto ancora il manuale di Giaquinto ( Il mio libro cit., p.145), con un esempio tratto dalla ricetta del “Baccalà dorato o alla pastella”: A cotto si taglia in pezzetti, si fa appena prolessare, quindi si fa asciugare sopra un panno, s’infarina e si passa all’uovo, oppure si immerge nella pastella.
Limitatamente all’aggiunta dell’ olio per condire un piatto, l’italiano culinario conosce anche la variante olio crudo : la si legge sia nei ricettari otto-novecenteschi (per es. nel titolo della ricetta “Broccoli con oglio crudo e succo di limone” contenuta nella Cucina teorico-pratica di Ippolito Cavalcanti, Napoli, Palma, 1839, p.221; nelle Ricette di Petronilla di Amalia Moretti Foggia Della Rovere, Milano, Olivini, 1935, p.147: “In un tegame di rame, o di alluminio, mettete con olio crudo, sale e pepe (e dal lato del condimento) la bistecca”; nel Piccolo focolare di Giulia Lazzari Turco, Trento, G.B.
Monauni, 1947, p.36, dove si raccomanda di diluire con olio fino, crudo il battuto di basilico con cui condire “alla genovese” la pasta), sia in alcuni più recenti (e autorevoli) libri di cucina, come nella Cucina di casa del Gambero Rosso. Le 1000 ricette di Annalisa Barbagli (nuova ed., Roma, 2002, p.78), in cui si suggerisce di completare “a piacere con un filo d’ olio crudo e con una macinata di pepe” la zuppa dell'”Infarinata della Garfagnana”.
- Però, se consultiamo i principali vocabolari della nostra lingua, non troviamo la locuzione olio a crudo ma soltanto olio crudo, e senza nessun riferimento alla cucina: l’espressione indica semplicemente il tipo d’ olio d’oliva ‘ottenuto da olive non ancora completamente maturate’ (, s.v. olio ).
- La definizione data dal GDLI si collega quindi al significato di ‘non maturo, acerbo’ che l’aggettivo crudo ha avuto e può ancora avere comunemente in italiano: si può parlare infatti, oltre che di olio crudo, anche di frutta cruda o di vino crudo, di vino cioè non ancora fermentato, non stagionato.
In tale accezione, in riferimento per esempio alla frutta, l’aggettivo ricorre già nell’italiano medievale, come mostra l’occorrenza del poeta aretino Cenne da la Chitarra citata come prima attestazione dal GDLI (s.v. crudo, seconda accezione): “E sorbi e pruni acerbi siano lìe, / nespole crude e cornie savorose”.
Con la stessa accezione anche nel Vocabolario dell’Accademia della Crusca, nella quarta e quinta impressione (1729-1738; 1863-1923): “Le frutte è vero, ch’elle son dolci, ma per esser crude, e difficili a digerire non generano molto buon sangue”; e (ma solo nella quinta) anche: “Le frutte che si potranno adoprare, sono le fragole, le ciliege e cotte e crude, gli sparagi, i fichi ec.”.
Anche il collegamento tra crudo e il vino risale al medioevo, nel XIV secolo, all’interno del Volgarizzamento toscano del trattato di agricoltura di Rutilio Tauro Emiliano Palladio: “che ti converrebbe o cogliere l’acerba insieme colla matura, e così avresti il vino crudo ed aspro; o fare aspettare quelle quell’altre, e questo sarebbe dannoso” (cfr.).
Altre attestazioni si trovano nel Vocabolario dell’Accademia della Crusca, già dalla prima impressione del 1612: “Similmente il vino delle rosse uve fatto, quando nel principio ancora è crudo, e ‘l suo calor mancherà, il colore avrà a bianchezza vicino” (nella seconda e terza impressione, 1623 e 1691, si aggiunge alla fine della citazione, tra parentesi quadre, la glossa “cioè non maturo”); nella quarta, la stessa citazione viene riportata (sempre s.v.
crudo ), sotto la locuzione vino crudo, con il significato di “non maturo, non fatto”; analogamente, nella quinta, “detto di vino, vale non finito di fare, non ancora ben fatto”. Nell’italiano contemporaneo, il significato di ‘acerbo’ per crudo, in relazione a cibi, frutti, è registrato nei principali vocabolari dell’uso, ad es.
GRADIT, (1986-1994),, Rinvia invece al significato di qualcosa che ‘non ha subito operazioni di raffinazione o di finitura’ l’aggettivo crudo usato in riferimento alla birra (Treccani, ): la birra cruda, oggi particolarmente apprezzata, è infatti una birra non pastorizzata e non filtrata. Riprendendo il discorso sull’ olio, i dizionari storici registrano una varietà di olio crudo chiamata olio onfacino (o omfacino, omphacino, onfangino ), ricavata dalla ‘spremitura delle olive non ancora mature’ e usata per scopi medicinali (GDLI, s.v.
onfacino ). Lo stesso GDLI lo registra per la prima volta nei testi quattrocenteschi del medico, umanista e scienziato padovano Michele Savonarola: “Di l’olio sapi che più confortativo dil stomaco. è l’ olio crudo, zioè facto di olive immature, dicto onfacino”.
Altre attestazioni, sempre secondo il GDLI, nel Ricettario fiorentino del 1567: “olio rosato onfangino”; nel Volgarizzamento di Dioscoride del medico e naturalista cinquecentesco di origine senese Pierandrea Mattioli ( Dei discorsi nelli sei libri di Pedacio Dioscoride Anazarbeo della materia medicinale, Venezia, 1585): “Lo olio, che si cava dalle olive immature, il quale chiamano omphacino, ciò è acerbo, è ottimo per l’uso de’ sani, e di questo quello è il migliore che è nuovo, odorato e non mordace”; nell’ Herbario novo di Castor Durante del 1602 (Venezia; 1a ed.
Roma, 1585): “Quello che si fa delle olive immature, chiamato omphacino, ha tanto in sé di frigidità quanto vi si gli ritrova del costrettivo”; nella Coltivazione toscana di Vitale Magazzini del 1625 (Venezia): “Alla fine del mese si colgono l’ulive acerbe per indolcire ed anco per fare l’olio vergine onfacino medicinale per le spezierie”; nel Corso d’agricoltura di Marco Lastri (Firenze, 1801-1803): “Gli antichi ebbero ragion di tener l’olio omfacino per cosa delicata e di lusso”; e, infine, nella raccolta degli scritti di Vincenzo Padula, pubblicata postuma con il titolo Persone in Calabria (Firenze, 1950): “S’impiagano malamente le piante, e si hanno olive immature, delle quali non è ancora uso di cavare l’olio onfacino”.
Si tratta di una voce dotta, derivata dal lat. tardo omphacinus, dal gr. ὀμφάκινος, deriv. da ὀμφάκιον, a sua volta deriv. da ὄμφαξ -ακος ‘uva acerba, agresto’. Con lo stesso significato ed etimologia l’aggettivo onfacino, in riferimento all’ olio, è messo a lemma (accanto alla variante omfacino ) nel Vocabolario dell’Accademia della Crusca, nella quinta impressione, in cui viene confermato il significato di olio “che si spreme dalle olive non ancora mature; acerbo; e dicesi d’olio, adoperato per uso medicinale”, con rinvio per la prima attestazione ancora al Volgarizzamento di Dioscoride, già citato per il GDLI, ma alla versione realizzata da Marcantonio Montigiano nel XVI secolo ( Dioscoride Anazarbeo, Della materia medicinale, tradotto in lingua fiorentina per Marcantonio Montigiano, Firenze, Giunti, 1546 o 1547): “L’olio che si cava delle ulive verdi detto onfacino, ciò è acerbo, è, da’ sani usato, per la sanità utilissimo.
Con questo si conciano gli altri olj”. Il Vocabolario della Crusca registra anche il valore sostantivale di onfacino (riferito all’ olio ) nel passo del testo già citato di Marco Lastri, Corso d’agricoltura : “Più degli altri provarono il detto effetto del gelo gli omfacini; anzi questi, anco dopo d’essere sciolti, lasciarono un certo sedimento”.
- In maniera simile il Tommaseo-Bellini (1865, online) lemmatizza l’aggettivo onfacino, segnato con la crux a indicarne la desuetudine, con il significato di ‘aggiunto dell’olio che si cava dall’ulive immature’.
- Si parla ancora di olio onfacino nella Memoria su i saggi diversi di olio e su della ragia di ulivo della penisola salentina messi come in offerta a Sua Maestà imperiale Caterina II la Pallade delle Russie da G.P.
, opera pubblicata a Napoli nel 1786 dal medico e agronomo salentino Giovanni Presta e dedicata dall’autore all’imperatrice di Russia Caterina II. Nel suo studio sulla coltura degli ulivi, Presta riprendeva dal passato (in partic. da Teofrasto, Catone, Columella e Plinio) la classificazione di quattro tipi diversi di olio derivati dal grado di maturazione dell’oliva, in cui tra le denominazioni dell’ olio onfacino, considerata la più “dilettevole” tra le quattro varietà, c’è proprio l’ oleum acerbum o crudum : Il primo veniva detto dai Greci Onphachinon, ed Omotribes, e dai Latini Oleum acerbum : Æstivum: crudum: spanum ; veniva detto in secondo oleum viride : oleum strictivum : oleum ad unguenta ; si distingueva poi il terzo col nome di oleum maturum : oleum cadivum : oleum Romanicum : oleum commune ; e l’ultimo finalmente appellavasi oleum cibarium (si cita dall’ed.
- Del 1855, Lecce, Per Giuseppe Saverio Romano, p.24).
- Però, ancora oggi alcuni frantoi italiani producono e promuovono tra i loro oli migliori un tipo di olio extra vergine di oliva onfacino (usato anche nella variante omfacino ), considerato di altissima qualità perché lo si ottiene da olive raccolte mediante procedimenti meccanici direttamente dalla pianta durante l’invaiatura (l’inizio della maturazione), che garantiscono un olio di particolare pregio e con una bassissima acidità.
A usi molto lontani da quelli alimentari è destinato invece un altro tipo di olio crudo, quello di lino, un olio vegetale ottenuto dalla spremitura di semi di lino precedentemente essiccati o tostati che, a differenza di quello cotto, non viene sottoposto a cottura.
Il suo utilizzo è particolarmente indicato per il primo trattamento di un legno, mentre quello cotto è più indicato per il restauro e/o la conservazione di mobili antichi, e impermeabilizzazione di pavimenti in “cotto”. Niente a che vedere, quindi, con la cucina. Più in generale, l’espressione a crudo nei vocabolari è attestata fin dalla lingua del Trecento, ma anche in questo caso senza nessun legame con la tavola: compare, secondo il TLIO (s.v.
crudo ), in un documento giuridico in volgare di origine siciliana del 1349 nella locuzione nominale muro a crudo, cioè ‘non cotto, di mattoni non cotti’: “Item casalinu unu muratu di muru a crudu lassau a Sanctu Nicola”; e anche nel l’espressione a crudo indica l'”operazione fatta sopra le cose di terra prima di cuocerle”, con rinvio al trattato Dell’historia naturale (Napoli, 1599) del farmacista e naturalista di origine napoletana Ferrante Imparato: “Sono adunque de gli vasi di terra, altri una volta, altri due volte cotti: e altri di loro coloriti a crudo, altri dopo la prima cottura”.
La locuzione italiana a crudo potrebbe essere dovuta a un influsso del francese; in effetti il, s.v. cru 2, registra l’espressione à cru nel senso di ‘in contatto diretto con’, ‘direttamente su’, documentata fin dal sec. XIV, nella letteratura cavalleresca ( armé a cru ), in contesto anche in questo caso ovviamente non di tipo culinario (cfr.
Pietro Fanfani e Costantino Arlìa, Il lessico della corrotta italianità, Milano, Libreria d’Educazione e d’Istruzione di Paolo Carrara, 1877, s.v. a, “I nuovi Italiani mangian la costola, la bistecca a’ ferri ; non più in gratella! E così per costoro gli spaghetti sono al burro o al pomodoro e non col burro o col pomodoro “).
- Come si è già potuto osservare, è oggi possibile incontrare, quando si tratta di condire un piatto con l’ olio, entrambe le locuzioni: olio crudo e olio a crudo, tanto nei ricettari stampati quanto nelle ricette consultabili in rete.
- Ma la locuzione a crudo possiede in cucina una valenza più ampia: è usata sia per indicare l’aggiunta dell’ olio o di altri condimenti a una pietanza, sia per la preparazione di cibi da realizzare quando sono ancora crudi o subito dopo averli cotti, tolti dalla fiamma.
In alcuni casi, a distinguere graficamente l’espressione con la preposizione a possono esserci le virgolette, quasi a marcarne il significato particolare, l’uso specialistico che se ne fa in cucina: Per condire utilizzate sale iposodico iodato, aceto o limone, tutti gli aromi, 4-6 cucchiaini di olio extravergine di oliva al giorno, sempre ” a crudo ” sugli alimenti (Evelina Flachi, La dieta Flachi, Milano, Rizzoli, 2010, p.53, e-book); e anche nelle ricette su internet: L’olio nuovo? Meglio se usato ” a crudo ” – Fagioli al Fiasco ().
Si tratta di due espressioni che hanno comunque particolare diffusione anche in relazione alle nuove tendenze alimentari che promuovono il consumo di ingredienti naturali e non trattati, tra le quali negli ultimi anni ha avuto un certo riscontro il raw food, la ‘dieta crudista ‘ (o cucina crudista, cucina a crudo, mangiare a crudo ecc.), così chiamata perché chi la segue assume alimenti non sottoposti a cottura (in particolare frutta, verdure, germogli, fiocchi di cereali, ma anche alimenti di origine animale come uova, pesce e carne bovina), in quanto ritenuti più sani.
Nell’ottica di questi stili alimentari l’aggettivo crudo, quando riferito a un cibo, sembra dunque assumere il significato di “naturale”, “genuino”, “non sofisticato o adulterato”. Ecco allora che in alcune diete si consiglia ad esempio “l’integrazione durante i pasti di un cucchiaio al giorno di olio crudo non raffinato, cioè spremuto a freddo” (Paolo Buonarroti, Identikit cancro, Book Sprint Edizioni, 2013, p.91).
E le stesse espressioni di olio crudo e olio a crudo (allo stesso modo di birra cruda citata poc’anzi) diventano persino dei marchi commerciali (i cosiddetti brand ): Crudolio è infatti il marchio di una vera e propria linea di oli crudi, che nel sito dell’azienda vengono definiti «”vergini”, perché ottenuti tramite spremitura meccanica e non raffinati da processi industriali» (https://www.crudolio.it); e si pensi ai tanti ristoranti e pizzerie chiamati Olio a crudo, spesso d’altissimo pregio, diffusi sia in Italia sia all’estero.
Marzia Caria 16 febbraio 2022 : Perché si dice olio a crudo e non olio crudo? – Consulenza Linguistica
Come si cucina a crudo?
Cominciare i pasti con un alimento crudo ben dispone il sistema digestivo, aumenta il senso di sazietà e dovrebbe essere una regola per tutti, a colazione, pranzo e cena. In questo libro dello chef Giuseppe Capano trovate tanti consigli e 100 ricette, dall’antipasto al dolce Editore: Tecniche Nuove Pagine: 128 Formato: 14,3 x 21 cm Prezzo in promozione (cartaceo): 9,41 Prezzo in promozione (digitale – pdf): 7,99 Cominciare i pasti con un alimento crudo ben dispone il sistema digestivo, aumenta il senso di sazietà e dovrebbe essere una regola per tutti, a colazione, pranzo e cena.
- È possibile però, anche senza diventare crudisti completi, organizzare dei pasti interi senza cuocere gli alimenti, in particolare frutta, verdure, germogli, fiocchi di cereali, bulgur e couscous.
- Si può fare in tutte le stagioni dell’anno, non soltanto in primavera o estate, come sembrerebbe più ovvio.
Si possono mangiare crudi anche alcuni alimenti di origine animale, purché freschissimi e di sicura provenienza, come uova, pesce e carne bovina. Il segreto sta nei condimenti : olio extravergine di qualità, marinature con sale e succo di agrumi, utilizzo di erbe aromatiche e spezie.